Antonella

Penso di essere fortunata. Ha scelto me. Io ho 22 anni e lui 37. Aveva altre storie, ma è venuto a vivere con me, a casa mia.
Siamo stati felici. Per una settimana. Poi ho scoperto che basta niente a farlo arrabbiare. L’altra sera non so come è iniziata, mi ha tirato un pugno sul naso, mi ha chiamata idiota, ha preso le sue cose ed è tornato a casa sua. Ha detto che la storia è finita, che devo farmene una ragione. Qualche giorno prima era il mio compleanno, mi ha portato i fiori, mi ha scritto una lettera bellissima, e adesso questo. Non capisco.
Forse è stata una reazione impulsiva, forse potrebbe tornare, cambiare idea. Forse vuole tornare, ma si vergogna di quello che ha fatto. Devo cercarlo io? Non riesco a non chiamarlo, anche se le mie amiche mi dicono di lasciar perdere. Eppure, perchè? E’ colpa mia? Me lo sono meritato? Non l’ho capito? Ora lo chiamo.

Questa è la storia di una delle tante donne che hanno subito violenza da parte degli uomini. Il nome è di fantasia, potrebbe essere il mio, il vostro, quello di vostra madre o di un’amica. La storia invece è ispirata a una storia reale, riportata anonimamente su uno dei tanti blog e forum in cui le donne raccontano. Sono stati cambiati luoghi e dettagli, omessi nomi e circostanze che potrebbero rendere riconoscibili le protagoniste. E’ rimasta la vita di questa donna, perchè altre donne la leggano.
Leggi anche le storie di Elisa e Fiorella.

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Lunedì 19 settembre all’Arena di Verona sedici donne si sono trovate sul palco di Amiche in Arena, un concerto di Loredana Bertè con la direzione artistica di Fiorella Mannoia contro la violenza sulle donne e il femminicidio. L’incasso della serata è stato totalmente devoluto a D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza.
A novembre sono in uscita un dvd e un cd dell’evento, i cui ricavati saranno ugualmente devoluti ai centri antiviolenza.

Amiche in Arena

Tutto ha avuto inizio con una scarpa rossa appesa a un microfono. E’ la fine del video “E’ andata così”, la canzone che Ligabue ha scritto per Loredana Bertè e che ha anticipato come singolo l’album “Amici non ne ho… ma amiche sì”. La scarpa rossa è il simbolo della lotta alla violenza contro le donne. E’ da quella scarpa rossa che Fiorella Mannoia, produttrice del disco e direttrice artistica di “Amiche in Arena” e Loredana Bertè sono partite, pensando di trasformare quella che doveva essere la festa per i 40 anni di carriera della Bertè in occasione di fare qualcosa di concreto per le donne. E’ nata così l’idea di una serata di solidarietà per sensibilizzare il pubblico sul tema della violenza contro le donne e per raccogliere fondi per sostenere i centri antiviolenza, non istituzionali e gestiti da associazioni di donne.
Zucchero Fornaciari, in questi giorni in Arena, ha ceduto un giorno all’evento, prestando il palco. Tute le artiste che hanno preso parte al disco di Loredana hanno aderito all’iniziativa: Fiorella Mannoia, Paola Turci, Emma, Noemi, Alessandra Amoroso, Nina Zilli, Elisa, Antonella Lo Coco, Aida Cooper, Patty Pravo, Bianca Atzei, a cui si sono aggiunte Gianna Nannini, Elodie ed Irene Fornaciari.
Il concerto ha fatto sold out in prevendita, con 12.000 biglietti venduti. Oggi Fiorella Mannoia ha consegnato a nome di tutte le sue colleghe un assegno di 150.000 euro, ricavato dell’evento a D.i.Re, Donne in rete contro la violenza, che gestisce 77 centri antiviolenza e case delle donne in Italia, in gran parte sostenuti da volontari.
Questo è solo il primo passo, è prevista infatti a novembre l’uscita di un cd e un dvd della serata, il cui ricavato sarà interamente devoluto ai centri antiviolenza.
Non avete pensato di invitare qualche collega uomo al concerto?” Fiorella risponde : “Io mi aspetto che ci pensino da soli, che organizzino anche loro un concerto contro la violenza sulle donne.”
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Alle 21 l’Arena è al completo, in ogni settore. Il pubblico delle gradinate inizia una ola di benvenuto. Sul palco salgono le padrone di casa della serata: Loredana e Fiorella, e iniziano con “Il mare d’inverno”, che emoziona la platea e lascia poi spazio ad “America”, duetto con la Nannini.
Una serata in cui le donne decidono di unirsi per fare qualcosa in cui credono è anche questo: cantare generosamente non solo le proprie canzoni, sperimentare duetti, lasciare posto alle altre. Così fa Loredana, ritirandosi ogni tanto dietro le quinte mentre Fiorella ed Irene Grandi cantano Sally, Gianna Nannini, la Grandi ed Emma si esibiscono ne “I maschi”, Fiorella ed Alessandra Amoroso cantano “In viaggio”, commuovendosi entrambe, Patty Pravo e Nina Zilli duettano ne “La bambola”.

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Foto di Luca Brunetti


“La mia discografia è la Treccani”, dice Loredana, ed è vero: è un repertorio di pezzi che hanno fatto la storia della musica italiana, che tutti i 12.000 presenti sanno a memoria senza rendersene conto. Esplodendo quando Loredana intona “Sei bellissima”, con Alessandra Amoroso, o “Dedicato” con Noemi, ballando su “E la luna bussò” con Noemi ed Elisa.
E naturalmente, ricordando Mimì, la diciassettesima artista sul palco, invisibile ma presente, evocata da Loredana in una struggente “Luna”, una canzone per me sacra, dice la cantante, perchè l’ho scritta dopo tre anni che guardavo il soffitto. “Chi è Mimì?” chiede una ragazzina seduta vicino a me. “Un pezzo di storia, la sorella di Loredana”, vorrei risponderle.
Mimì presente anche in “Stiamo come stiamo”, eseguita con Elodie dopo 25 anni – la cantavo con Mimì, dice Loredana, poi non l’ho più cantata – ricordata in “Almeno tu nell’universo”, con Elisa ed Emma, e in “Padre davvero”, canzone contro la violenza sulle donne per cui Mimì era stata denunciata dallo stesso padre. “E adesso gliela canto io”, dice Loredana.

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Foto di Sabry Zanza

Non manca, tra tanta musica, una testimonianza di una donna che è stata pesantemente colpita da chi diceva di amarla, Valentina Pitzalis, cui l’ex marito ha dato fuoco, provocandole tremende ustioni e la perdita di una parte del braccio sinistro. Valentina porta fieramente le sue cicatrici. “Se a qualcuno dà fastidio il mio aspetto,” dice, “che si giri dall’altra parte, io non mi chiudo in casa. Non sono le vittime a doversi vergognare”.

Il concerto si chiude con due pezzi cantati in coro da tutte le artiste, “Amici non ne ho” e “Quello che le donne non dicono”. Ma in realtà no: il concerto lo chiude il pubblico quando Loredana dice di poter finalmente festeggiare bene il suo compleanno, oggi, 20 settembre, e il pubblico intona “Tanti auguri a te”.
Il 20 settembre è anche il compleanno di Mimì.

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foto di Donatello Iacobone

 

Alessandra

Era una brava persona. Così lo vedevo io. E mi amava. Altrimenti perchè avrebbe affrontato 700 chilometri andata e ritorno, due volte al mese, solo per stare con me? Piaceva a tutti: a mia sorella, ai miei genitori, agli amici. Era un uomo colto e di successo. Parlavamo di avere figli, dopo sei mesi lo abbiamo fatto. Lui ci teneva che il bambino nascesse nella sua città, gli ospedali, i pediatri, gli asili e le scuole erano i migliori. Persino le baby-sitter erano migliori, e i suoi genitori potevano aiutarci. Ho lasciato il mio lavoro, mi sono trasferita. Non ho capito perchè dovevo pagargli un affitto, visto che la casa era sua. Mi sono rotta un piede, ci è caduto sopra un computer, lanciato da lui. Ho avuto un parto difficile, e lui non c’era. Poi ha iniziato a portare il bambino da sua madre, a chiudermi in casa e picchiarmi. Sono rimasta incinta un’altra volta. Ho chiamato mia madre, le ho chiesto di aiutarmi a venire via. E’ arrivato mio suocero, ha cercato di portare via il bambino. I carabinieri mi hanno detto che se denuncio il mio compagno parte il processo. Ho paura di perdere i miei bambini. Ho paura di fare qualsiasi cosa. Rimango.

Questa è la storia di una delle tante donne che hanno subito violenza da parte degli uomini. Il nome è di fantasia, potrebbe essere il mio, il vostro, quello di vostra madre o di un’amica. La storia invece è ispirata a una storia reale, riportata anonimamente su uno dei tanti blog e forum in cui le donne raccontano. Sono stati cambiati luoghi e dettagli, omessi nomi e circostanze che potrebbero rendere riconoscibili le protagoniste. E’ rimasta la vita di questa donna, perchè altre donne la leggano.
Leggi anche le storie di Irene e Fiorella.

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Lunedì 19 settembre all’Arena di Verona sedici donne si uniranno in “Amiche in Arena”, un concerto di Loredana Bertè con la direzione artistica di Fiorella Mannoia contro la violenza sulle donne e il femminicidio, per sostenere i centri antiviolenza. Per ricordare che di queste storie bisogna parlare.

Fiorella scende in arena

fioresulpalcoIn arena. Ha sempre acceso una certa inquietudine in me, quest’espressione.
C’è un solo spettacolo possibile, quando si scende in arena: il combattimento con i leoni.
Dunque ero un po’ preoccupata, al pensiero di Fiorella che scende in arena tra i leoni.
Qui non si tratta (solo) di cantare, ma di essere il punto focale di un monumento di 2000 anni, il fulcro di uno spettacolo sorvegliato da 15.000 leoni di varie taglie età sesso e carattere, di armonizzare con le voci degli ospiti più diversi, rock pop rap. Il tutto chiudendo una tournée celebrativa di 47 anni di carriera, con uno spettacolo culmine di tutti gli spettacoli. Un combattimento con i leoni mi sembrava un’idea azzeccata.

Ecco quello che pensavo lunedì, mentre vagavo per le vie di Verona, rimbalzando tra comitive di cinesi che si facevano strada tra un gelato, una pizza e una foto con la mano sulla tetta della statua di Giulietta.
Stasera lei scende in arena, tra i leoni.
I leoni erano reali e feroci, provenivano da ogni regione conosciuta e sconosciuta. Erano già lì dal mattino, li vedevo aggirarsi tra i gladiatori di plastica, le comitive di russi in posa per la foto ricordo davanti all’arena e i pezzi dorati di Aida arenati sul piazzale.
I leoni hanno un gran fiuto. Trovano subito l’entrata del recinto della preda. L’ingresso era circondato da reti metalliche, ma senza filo spinato.
Certo, per i leoni, mi dicevo. Così non entrano a mangiarla prima dello spettacolo. C’erano ovunque domatori vestiti di nero, alti e muscolosi, pronti a respingere qualsiasi assalto.
Ogni tanto qualche coraggiosissimo musicista usciva di corsa, sfilando tra i leoni che lo seguivano con occhio attento annotandosi i dettagli. Qualsiasi dettaglio può essere utile per vincere un combattimento in arena.
Erano leoni piuttosto organizzati: nel tardo pomeriggio avevano già formato lunghe file davanti agli ingressi delle gradinate non numerate, ruggendo minacciosamente alle comitive di tedeschi capitanati da guide con l’ombrellino colorato che continuavano a roteare intorno all’arena.
All’apertura degli ingressi hanno sfoderato tutta la loro ferocia, sbranandosi per i posti migliori mentre strani ometti con i baffi si aggiravano sulle gradinate indifferenti alla carneficina urlando “Birecolagelati”.
Alle nove erano tutti puntualmente seduti ad affilarsi le unghie, aspettando Fiorella.
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Lei è entrata, alta, meravigliosa e sicura, cantando una canzone che rievocava i suoi esordi da domatrice, quando da bambina cavalcava leoni al Festival di Castrocaro. Questo sicuramente li ha spiazzati. Agitavano la coda e ruotavano la testa come gatti curiosi. Sono rimasti in attesa per qualche canzone, fino a quando è entrato Enrico Ruggeri, accolto da qualche ruggito di approvazione. Enrico e Fiorella hanno una lunga storia musicale in comune, e queste cose i leoni le sentono.
Durante “Sempre e per sempre”, suoni strozzati uscivano dalle loro gole, singhiozzi soffocati e mugolii; sarà stato l’effetto delle luci, ma giurerei di avere visto una gradinata di leoni in lacrime.
Con l’ingresso della Bertè – e poi di Emma – si sono parecchio agitati, sarà il rock, saranno i riflessi blu dei capelli della Bertè… battevano la coda e tenevano il ritmo.
Poi è entrato Niccolò Fabi, e ho visto una cosa inaudita. Ho visto 15.000 leoni battere il tempo in una coreografia involontaria così perfetta che nemmeno se fossero stati allevati al circo Togni. Li ho visti offesi e commossi e incantati.
Li ho visti scattare sulle quattro zampe a ballare un duetto Fiorella J-Ax tanto improbabile quanto esaltante.
Li ho visti festanti e accalcati sotto il palco a ruggire parole perdute.
Poi li ho visti domati, così in balia della voce, dei gesti e degli sguardi di Fiorella che lei è scesa tra di loro e li ha guardati da vicino. Erano gattini che facevano le fusa e le correvano incontro a salutarla.

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Fiorella domatrice. Foto dalla sua Official Page di Facebook.

Di stelle e di Verona

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A volte mi piacerebbe che le persone si lasciassero dietro una scia luminosa, come le stelle cadenti di metà agosto, per poter seguire il loro percorso e per accorgermi che tutto quello che ci circonda è un tessuto di traiettorie incrociate. A volte come tessuto non gli do una grande importanza, solo un colpo d’occhio distratto; è sempre lì, il colore varia un po’ con la luce, una presenza scontata. E’ quando inizi a tirare un filo per volta che capisci quanto può cambiare sfilando qualche riga di trama o modificando l’ordito. Quante storie contiene.

Se le persone fossero stelle cadenti luccicanti che si lasciano dietro una scia luminosa, domani Verona esploderebbe di luce come una supernova. Pare che una supernova emetta in qualche settimana tanta energia quanta ne emette il sole in tutta la sua esistenza. E questo è il motivo per cui domani sera sarò all’Arena di Verona a vedere il concerto in onore dei 47 anni di carriera di Fiorella Mannoia. Pare che per arrivare all’esplosione una supernova ci si metta un po’, e questo è il motivo per cui sarò a Verona diverse ore prima del concerto: per godermi lo spettacolo di migliaia di stelle cadenti incrociate, per sentire vibrare le pietre e per vedere l’emozione negli occhi di chi sta sul palco e non si abitua mai.
E per provare a raccontarlo.

9 domande 10 anni dopo

Tanti anni fa, in una contrada immersa nella nebbia dove non succedeva mai niente e tutto era grigio, una testa di riccioli rossi è sbucata dalla televisione. Aveva una voce potente e cantava una canzone di De Andrè. Avevo quattordici anni e sapevo poche cose, ma ho capito subito che era una voce pericolosa: poteva tutto. Poteva sbilanciarmi, poteva farmi credere di avere la stessa forza che aveva lei. Era un pensiero segreto, di cui un po’ mi vergognavo, perchè non c’era niente che potesse legittimarlo.

Molti anni dopo sono uscita dalla nebbia e l’ho cercata. Ho visto concerti, ascoltato dischi, partecipato a presentazioni, ogni parola mi diceva qualcosa, mi parlava con una strana familiarità. Poi ho trovato un libro in cui lei, Fiorella Mannoia, si racconta in prima persona. Il libro si chiama “Biografia di una voce”, ed è del 2005. Ogni tanto lo rileggo e continua a parlarmi, a farmi domande, a farmi pensare. Sono passati dieci anni e il mondo è andato avanti; Fiorella crede ancora alle cose che ha scritto? L’ho chiesto a lei, in nove domande. E dal momento che quella voce, oltre che pericolosa, è anche gentile e disponibile, mi ha risposto.

I testi virgolettati sono citazioni del libro.

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1 “In sintesi, oggi dovremmo chiederci quanta libertà ci sia davvero rimasta e quanto invece dobbiamo considerarci assoggettati (magari in modo inconsapevole) a questo nuovo tipo di dittatura strisciante che ha come leader unico e indiscusso la televisione, che non si impone con la forza, lasciandoti perfino l’illusione del libero arbitrio.”
Siamo ancora nella stessa situazione di apparente libertà? Il leader della dittatura è ancora la televisione?

Siamo ancora nella stessa situazione. E’ la dittatura dell’informazione, l’informazione non è mai libera, ci sono sempre degli interessi che la dirigono: l’editore, il pensiero politico. Pensa solo cosa è successo anni fa con Saddam Hussein. Tutte le televisioni occidentali hanno dato la notizia che Hussein aveva armi di distruzione di massa. Tutte. Era quello che volevano farci credere. Non era vero, ma è servito a motivare una guerra.

L’informazione nel web non ti sembra un altro caso di apparente libertà? In rete trovi di tutto, ci sono esperti pronti a certificare qualsiasi cosa. Anche in rete non puoi mai essere sicura che qualcosa sia vera.

In rete trovi di tutto, è vero, ma c’è la possibilità di verificare le notizie, di confrontarle con i libri degli autori di cui ti fidi (vedi Galeano) e con gli articoli dei giornalisti che reputi seri.

2 “Le parole che canto mi rappresentano, le storie delle canzoni che canto mi somigliano.”
Tra le canzoni che hai cantato in questi ultimi anni scritte da altri, quale ti rappresenta particolarmente? E tra quelle che hai scritto tu?

Le canzoni che canto mi rappresentano tutte, sennò non le canterei. Tra le mie, la prima che ho scritto è “Se solo mi guardassi”. Sono molto affezionata anche a “In viaggio”.

L’impressione che ho io è che “Se solo mi guardassi” sia una canzone ricca, piena di immagini e storie, più compiuta; il pubblico si è affezionato subito a “In viaggio” perchè è più facile l’immedesimazione.

“Se solo mi guardassi” è anche ricca di metafore, che forse non tutti colgono. Le “conchiglie padrone del destino” sono quelle che si usavano per i riti di divinazione; “le regine di vento e di tempesta” sono le divinità delle antiche religioni africane, che in Africa non esistono praticamente più perchè sono state spodestate dall’avvento del cristianesimo e dell’islam. Per fortuna queste religioni sopravvivono ad Haiti, a New Orleans, in Brasile.

3 Citando Gramsci, qualche anno fa hai parlato di “Ottimismo della volontà”. Ci credi ancora? Vuoi essere ottimista? Insisti?

Devo. Anche per il mio ruolo di personaggio pubblico.

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4 “La mattina, quando mi alzo, dopo aver aperto le finestre, la prima cosa che faccio è scegliere la musica da sentire.” Lo fai ancora? Cosa ascolti?

Non sempre, ma lo faccio. Se è appena uscito un disco di qualche cantante che mi interessa lo ascolto a ripetizione.

Tutto l’album o anche solo un brano? Sei un’ossessiva compulsiva capace di rimettere lo stesso pezzo decine di volte di seguito?

Sono capace di sentire un brano ancora, e ancora, e ancora, e ancora…

5 “Artisticamente non ho mai avuto la certezza di essere brava, ho sempre avuto (e ho ancora) la sgradevole sensazione di non essere mai all’altezza, di essere inadeguata.”

Dopo cinque targhe Tenco, cinque Wind Music Award, un premio Amnesty, un premio Caruso, una quantità di dischi d’oro e platino che ci potresti costruire una pila per salire a cambiare le lampadine e interi teatri in lacrime, ti sei un po’ rassicurata o hai ancora questa sensazione?

Mi sono un po’ rassicurata, ma non del tutto. So di avere dei limiti, non interpretativi ma vocali. Non ho le possibilità vocali che hanno alcune mie colleghe, ho un’estensione limitata. A volte questo mi provoca un po’ di frustrazione.

6 “Bisognerebbe far capire a questi ragazzi che la felicità non è un diritto ma una conquista che costa impegno e a volte sacrificio, e che però niente è paragonabile alla felicità che dà la soddisfazione di aver conquistato una cosa seppur piccola con le proprie forze, senza l’aiuto di mamma e papà.” E’ la stessa cosa che diresti adesso ai giovani?

Sì, adesso più che mai.

7 In chiusura di una discussione sull’antico “Fiorum” del tuo sito, scrivevi: “Siete troppo belli, sono fiera di questo forum.” Oggi hai due profili facebook e una pagina pubblica, oltre a un account twitter. Cosa pensi delle persone che ti seguono e ti commentano?

Sulla pagina pubblica di facebook c’è di tutto, a volte arrivano persone che non sono d’accordo con quello che scrivo e mi insultano. Ma le persone che mi seguono, che vengono ai miei concerti mi assomigliano. Crediamo alle stesse cose, condividiamo gli stessi valori. Tutti cerchiamo i nostri simili.

8 “Perdere la memoria sarebbe come morire, noi siamo il risultato di ciò che siamo stati: difendere la memoria, in questo caso la memoria storica, dovrebbe essere un dovere di tutti.”
Secondo te qual è adesso la memoria più in pericolo, quella che abbiamo quasi perso?

La memoria di quello che siamo stati. Siamo stati un popolo di emigranti, per molti anni, abbiamo invaso il mondo, abbiamo esportato tante cose, compresa la delinquenza. Vorrei che lo ricordassero le persone che adesso si scagliano contro i nostri fratelli immigrati. Si è persa la memoria che siamo sempre stato un paese accogliente.

9 “Sono fermamente convinta che l’arma più micidiale che l’umanità possegga sia la gentilezza.”
Lo pensi ancora? Cambieremo il mondo con la gentilezza?

Sì. Lo penso, perchè la gentilezza mette sempre in moto qualcosa.

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Ringrazio Fiorella Mannoia per la disponibilità e Luca Brunetti per l’utilizzo delle fotografie.

Questo è un uomo

Qualche anno fa, ero in terza liceo, sono venuta in gita scolastica a Bologna.

Bologna era già una vecchia signora dai fianchi un po’ molli ma non era ancora la mia città, né avevo il minimo sospetto che lo sarebbe diventata. Mi risucchiava nei suoi portici e mi apriva le sue piazze, e io mi ostinavo a usare tutto il mio tempo per fare minuscoli disegnini di architetture senza nome. Non c’era ancora quella che adesso è la biblioteca Sala Borsa, ma c’era – come c’è sempre stato e sempre ci sarà – Palazzo Re Enzo, aperto al pubblico per una mostra fotografica sui campi di concentramento. Lì dentro, Bologna è sparita. Erano uomini e donne scheletrici in divise a righe sbrindellate che mi fissavano dal fondo delle loro orbite. Erano orbite di altre vite, di altri pianeti, lontanissimi dal mio, eppure mi fissavano, i loro occhi fondi nei miei. Un anziano signore custodiva le vite di tutte le persone ritratte in quelle foto e la morte di tutti quei corpi che si intravvedevano nelle fosse. E stava parlando, questo signore, non ricordo cosa stesse raccontando quando ha sentito due ragazzi ridacchiare. Era il ridacchiare delle gite scolastiche, niente di che, ma è bastato. Il vecchio si è raddrizzato, ha ritrovato la voce dei suoi trent’anni e si è messo a urlare: “Voi non capite! Potrebbe succedere ancora! Adesso! A voi!”

Quell’urlo si è conficcato nel mio cervello. Perchè era urgente. E’ urgente. Quell’uomo voleva che capissimo prima che fosse troppo tardi.

Non so se è questo, il senso della memoria: avere coscienza che tutto quello che è stato può essere ancora, se non ci manteniamo vigili, attenti ai minimi segnali.

La memoria è anche altro. A me piace ricordare qualcosa che Primo Levi ha raccontato ne “La tregua”. Quegli uomini stremati dal freddo, dalla stanchezza e dalla fame, impauriti, ridotti a istinti animali, arrivavano a pagare un pezzo di pane o una sigaretta qualcuno che sapeva suonare il violino, o cantare, o recitare una poesia. Ecco, tutte le volte che qualcuno dall’alto della sua piramide di pragmatismo sentenzia che fino a che non si risolvono problemi basici non è importante la bellezza, io penso a Primo Levi che ascolta un violinista con un buco nello stomaco e le lacrime agli occhi. Questo è un uomo.

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A te – una storia

Non so scrivere recensioni. So rintracciare storie, a volte, e provo a raccontarle. E questa è una storia, divisa in capitoli, che attraversa una vita. La mia.

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Capitolo uno: un registratore, cassette, un uomo con gli occhiali tondi e il cappellino. Lo ascolta mio padre, è di mio padre; dice che quel signore con il cappellino è nato un mese esatto prima di lui, che è del 4/4/1943. Io ascolto in silenzio e imparo le parole a memoria.

Capitolo due: al mare con i nonni. Tanta gente, troppe parole. Ho due cose per difendermi: i miei libri e il mio primo walkman, con una cassetta che cigola e canta “Itaca, Itaca, Itaca, la mia casa ce l’ho so là…” La ascolto tutte le sere prima di addormentarmi e riavvolgo la cassetta intorno a una biro per risparmiare le batterie.

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Capitolo tre: università. Guardo il mare di Genova e consumo Le rondini e Apriti cuore. Il cuore si apre.

Capitolo quattro: mi trasferisco a Bologna. Do subito ragione a Lucio: nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino. Lui diventa una presenza, è facile incontrarlo al mercatino di Piazza Santo Stefano o in via D’Azeglio. Non gli dico mai niente. Solo ciao.

Capitolo cinque: Lucio muore improvvisamente tre giorni prima del suo compleanno. Mi ritrovo in coda con migliaia di persone davanti a Palazzo d’Accursio per salutarlo. Dagli altoparlanti arrivano le sue canzoni. Mi accorgo che le so tutte, anche quelle che ho sentito di meno. La gente intorno a me piange, ride, canta, racconta cosa faceva quando è uscita quella canzone, ogni canzone.

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Capitolo sei: 4 marzo 2013, grande concerto per Lucio in Piazza Maggiore. La città ci mette quattro giorni a prepararsi, come per una serata di gala. Non c’è negozio del centro che non abbia un ricordo di Lucio in vetrina: una foto, la copertina di un disco, un cartello. Molti le lasciano anche a concerto finito.

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Capitolo sette: settembre 2013. Fiorella Mannoia incide “A te”, album tributo a Lucio Dalla.

Non sono mai stata così dentro a un disco. Non ho mai toccato le parole delle canzoni come se fossero stoffa. Non ho mai sentito le emozioni dei musicisti e di una cantante stringersi intorno a me, diventare qualcosa che ho indossato e che non mi toglierò più.

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foto di Simone Cecchetti

Le ho sentite bene, le canzoni di Lucio. Ogni canzone, un film. Da ogni immagine, anche la più piccola e insignificante, una storia. Non c’è niente che non contenga una storia: la vita di un carcerato, di un pescatore, una serata, uno sguardo, una città. Forse è anche per questo che ho iniziato a scrivere: anch’io vedevo storie ovunque. So che le parole non sono tutto: basta il cambiamento di tono ad alterare una storia, un ritmo diverso a cambiarla, una pausa a spostare l’attenzione di chi legge o ascolta.

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foto di Simone Cecchetti

In una sala d’incisione caldissima, che diventerà in bianco e nero, ogni attacco di orchestra è un film diverso. E’ l’atmosfera a cambiare, dal primo respiro di un violino.

E poi c’è lei, che sembra uscita da un film. Racconta ogni storia come se fosse la sua. Porta le persone su una spiaggia, su una nave, in periferia. Nessuno resta a casa, la seguiamo tutti: gli orchestrali, i musicisti, noi che siamo lì a guardare e sentire e non abbiamo abbastanza occhi e orecchie, non riusciamo a comprendere tutto se non con l’emozione.

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foto di Simone Cecchetti

Per me è un viaggio in terre conosciute con una guida che spinge le porte chiuse e apre tutti i cassetti. A ogni canzone mi mostra qualcosa che mi era sfuggito. A ogni canzone so che c’è ancora un’altra storia da scoprire. Per questo vorrei che durasse giorni e giorni, seduta per terra a fissare la sua schiena da sirena, circondata da violini e violoncelli, appesa ai gesti del direttore d’orchestra.

Ogni volta che la porta si chiude teniamo il respiro. Ogni volta che la musica ricomincia e che la sua voce ci entra dentro fa un po’ male, perchè so che entro quattro minuti – che possono essere quattro secondi e quattro giorni – finirà. E voglio che ricominci, e che ricominci ancora.

E ricomincia, infatti, e ricomincia ancora ogni volta che riascolto le canzoni nel mio ipod. Sono microstorie che si aprono un po’ alla volta.

Ah… felicità, su quale treno della notte viaggerai

Lo so che passerai, ma come sempre in fretta non ti fermi mai.

Fiorella e Ron A te

foto di Simone Cecchetti

4 marzo: quel che resta di un concerto

Ultimo post sul 4 marzo. Poi la smetto, lo giuro.

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foto di Andrea Modenese

Piazza Maggiore è vuota, ora, sotto la pioggia. Ci sono voluti quattro giorni a  prepararla e due a svuotarla. Il tempo ha retto fino alla notte del concerto, poi le nuvole hanno avuto il permesso di aggredire Bologna.

Quattro giorni sciolti in una notte. Cosa resta di un concerto?

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Migliaia di bottiglie vuote di birra, di vino, di acqua e coca cola abbandonate. Carta appallottolata sufficiente impacchettare il palco da stadio. Uomini e donne che galleggiano nel buio in giubbotti fluorescenti. Un ubriaco che tira bottiglie contro un muro.

Stanchezza nelle gambe. Un pass stampa. Un ricordo dolcissimo del pomeriggio. Due carte dei tarocchi trovate per terra mentre andavo alle prove. Tanto freddo. Frammenti di storie raccolte dalle transenne. Bolli di luce azzurri e gialli. Un palloncino rosa che vola.

Giganti che cantano sui palazzi e sulla torre dell’orologio. Le foto degli amici, molto meglio delle mie.

Giuliano e Fiorella – foto di Alfredo Leo

Renato Zero - Luca Brunetti

Renato Zero – foto di Luca Brunetti

Stefano Di Battista - Alfredo Leo

Stefano Di Battista – foto di Alfredo Leo

Una canzone struggente. Luci e ombre. Le gomitate dei fotografi. Il gobbo a prova di cieco proprio di fianco a me.

Fiorella Mannoia - Luca Brunetti

Fiorella – foto di Luca Brunetti

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L’intenzione di riascoltarle tutte, le canzoni di Lucio, anzi, di studiarle, di fare più attenzione, di rileggere i testi, di strizzare la memoria, di ritagliare i pezzetti in cui lui c’era e di farne un collage.

Lucio e il Nettuno - Andrea Modenese

foto di Andrea Modenese

Qualche polemica, anche. Sull’organizzazione del concerto, la serata a favore di telecamera, la quantità di gente che non poteva fisicamente entrare in Piazza Maggiore. Ma si sapeva. Era prevedibile. Questo concerto non avrebbe avuto lo stesso senso in un altro luogo. E’ stata una festa, ma anche un pellegrinaggio, un atto di devozione laica.

Esistono forse pellegrinaggi comodi?

4 marzo 2013: il concerto

In genere ai concerti di piazza vado con un certo anticipo. Tanto anticipo che spesso siamo in tre o quattro in una piazza deserta, sotto il sole spaccapietre d’estate e nel gelo d’inverno. Presidiamo il parterre, ci appoggiamo con nonchalance alle transenne, guardiamo il palco vuoto e parliamo di chi viene, di chi non viene, di chi forse arriverà. Ogni tanto si avvicina un vecchietto a chiedere: “Signorina, cosa succede qui?”, indicando il palco. “C’è un concerto.” “Adesso?” “No, alle nove.” E magari sono le tre. Il vecchietto ci guarda con gli occhi vuoti, si trattiene dal picchiettare un indice sulla tempia, e se ne va stringendosi nelle spalle.

Ieri a Bologna non era questo il caso. C’era gente a presidiare le transenne esterne sino dalle otto del mattino. Accampamenti galleggianti sulla pietra, con il picnic nello zaino e la chitarra pronta. Alle cinque e mezza hanno aperto il recinto e in dieci secondi i giochi erano fatti. Questa volta io ero al di là della transenna, a chiedere ai ragazzi della prima fila da dove venite e per chi siete qui. (Lo so che non è mai un perchè, ma sempre un per chi). Venivano da Lecce, Brescia, Spezia, Bari, Roma, Genova, qualcuno anche da Bologna. Erano lì per Lucio, certo, ma anche per i Negramaro, Renato Zero, Mengoni, i Negramaro, Morandi, i Negramaro, i Negramaro. Stoici, e impermeabili alle provocazioni (“Sentito che bella stecca ha preso Giuliano ieri, in prova con la Mannoia?” “Sì, ma alle prove delle undici ha cantato come un angelo”).

La folla inizia a spingere, la volontà a vacillare. Ragazzi (e non) in attesa da otto ore decidono di mollare e si fanno estrarre dalla sicurezza, che li tira al di sopra delle transenne nel recinto della stampa e li fa uscire lateralmente.

Le luci si accendono, Piazza Grande di riempie di bolli colorati. Vola un palloncino rosa. Il recinto stampa si riempie di guest, la folla protesta. Fra poco non importerà più a nessuno. Quando appare Lucio nel primo rvm, la piazza esplode.

E’ una questione di appartenenza. “Mio non è qualcosa che mi appartiene. Mio è ciò a cui io appartengo”, diceva Kiekegaard. E ieri in Piazza Grande c’era una tale ragnatela di appartenenze da catturare chiunque. Innanzitutto c’era Bologna, la città di Lucio, amata e amante. E Piazza Grande, quella della sua canzone e della gente. C’erano musicisti e cantanti che hanno lavorato con lui per anni, sul palco. Amici, colleghi, autori. Suoi, per elezione.

C’era l’appartenenza delle sue canzoni al pubblico. Ognuno ha il suo Lucio. Il mio è quello di Cara e Quale allegria. De L’anno che verrà e Itaca. Di Sulla rotta di Cristoforo Colombo e Com’è profondo il mare. Di Le rondini e Chissà se lo sai e Piazza Grande. E’ impossibile che non si sentisse propria almeno una o due canzoni, ieri sera. Impossibile che non ce ne sia una che ha segnato la nostra vita.

E poi c’erano gli artisti, sul palco, e il loro pubblico, e il gioco si moltiplicava. Il Nostro Artista che canta una canzone lontana di Lucio, e ce la spinge direttamente nel cuore.

Oppure un cantante che abbiamo sempre ascoltato poco che ci offre una canzone che abbiamo amato molto, e scopriamo la sua voce. E in pochi, fortunati casi, la voce che ci può dire ogni cosa che canta una delle nostre canzoni preferite.

Così ci si commuove.

Così navighiamo di bolina, barche contro la corrente, riportati senza posa nel passato. (F.S.F.)